È comprensibile che la garanzia della libera espressione di convincimenti e opinioni offerta nell’articolo 4 del ddl Zan non basti a rassicurare quanti temono un restringimento degli spazi per l’esercizio del pluralismo delle idee. Quella libertà è «fatta salva» a condizione che non venga riconosciuta idonea a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti. Le idee vengono enunciate e diffuse anche per mantenere o creare consenso intorno ad esse: se la loro coerente traduzione in opere equivale a una discriminazione, il pericolo può diventare concreto (mettere effettivamente a rischio il bene tutelato) in qualsiasi momento e certamente quando quelle idee potrebbero prevalere applicando il criterio democratico della maggioranza.
Insomma: l’insoddisfazione di molti per l’attuale formulazione dell’articolo 4 sottende il sospetto che alcuni convincimenti e opinioni possano rimanere pienamente legittimi a condizione che siano pubblicamente irrilevanti.
Sarebbe probabilmente più corretto affrontare direttamente il vero problema, senza nasconderlo, magari in assoluta buona fede, dietro il velo di distinzioni come quella fra pericolo astratto e concreto, che pure sono e restano giuridicamente importanti. E per farlo possiamo lasciarci guidare da alcune pagine, complesse e sfidanti, di Rawls. Egli riconosceva senz’altro che il discorso politico può spesso, per sua natura, essere o apparire pericoloso, «per il semplice motivo che l’uso pubblico e libero della ragione investe le questioni più fondamentali, e le decisioni cui porta possono avere gravi conseguenze».
Ciononostante – o forse sarebbe meglio dire proprio per questo – Rawls riteneva che si potesse continuare a utilizzare la regola del pericolo chiaro e immediato per limitare la libertà di espressione solo riconoscendo il carattere «assolutamente speciale» dei «gravi mali» per impedire i quali un intervento da parte del potere legislativo potrebbe divenire inevitabile, peraltro solo quando non vi sia altro modo per evitarli. Il rischio deve essere quello della «perdita della stessa libertà di pensiero o di altre libertà fondamentali, ivi compreso l’equo valore delle libertà politiche».
Deve trattarsi insomma di una «crisi costituzionale» nella quale sia compromesso addirittura il funzionamento delle istituzioni democratiche. Ai fini pratici, in una società democratica ben governata «l’uso pubblico e libero della ragione nelle questioni di giustizia politica e sociale sembra essere assoluto» (Liberalismo politico, Einaudi, Torino 2012, p. 324-5).
Forse Rawls è troppo ottimista nel ritenere che un paese di solide tradizioni e istituzioni democratiche possa offrire un margine di tolleranza molto ampio anche per la difesa di idee sovversive o comunque pericolose. In ogni caso, ci impone di riconoscere la difficoltà di tracciare questo limite quando sono in gioco libertà fondamentali. È a questo livello, che è poi quello della dignità che riconosciamo uguale in ogni essere umano, che si colloca il ddl Zan.
Per questo motivo si ricorre a un principio forte come quello di non discriminazione. Ma è sempre per questo motivo che nascono polemiche che appaiono insormontabili. Sappiamo tutti che quel che è per alcuni un esercizio legittimo o addirittura doveroso di razionalità e ragionevolezza su temi come il matrimonio, l’adozione, l’affido, l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è per altri espressione di posizioni e tesi appunto discriminatorie, alle quali si appoggiano il mantenimento e la proposta di norme discriminatorie e la giustificazione di atti e comportamenti discriminatori. Sul rifiuto della violenza tutti sono d’accordo. Ma non basta.
Questo è il punto sul quale occorre fare chiarezza. Se c’è discriminazione non c’è uguaglianza e il richiamo a questo principio è fatalmente destinato ad amplificare le conseguenze del dissenso sulla legittimità di alcune differenze di trattamento (discriminare significa trattare in modo diverso, ma non ogni differenza di trattamento è automaticamente una discriminazione).
Il comma 1 dell’articolo 41 della Legge 6 maggio 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), che riprende il testo della Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni discriminazione, la definisce come «ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza […] e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica».
Qui si parla di razza (e oggi sappiamo che non se ne dovrebbe più parlare), colore, ascendenza o origine nazionale o etnica, convinzioni e pratiche religiose. Non c’è lo stesso consenso, a torto o a ragione e limitatamente agli ambiti che ho ricordato, con riferimento alle differenze delle quali si occupa il ddl Zan. Ed è difficile negare che in questi ambiti siano in gioco diritti umani e libertà fondamentali. Nella Carta di Nizza, l’articolo sul diritto di sposarsi e di costituire una famiglia precede immediatamente quello sulla libertà di pensiero, di coscienza e di religione.
Si dica con onestà cosa si intende fare di questo dissenso e, soprattutto, se lo si considera compatibile con la vita di una società democratica. Magari esplorando anche ipotesi che potrebbero apparire ardite, se non decisamente provocatorie. La Legge 40/1998 enumera in modo esplicito alcuni atti che sono da intendersi in ogni caso di discriminazione, come l’imposizione di condizioni più svantaggiose o il deciso rifiuto di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia.
Si può immaginare di riconoscere, insieme a tutte le possibili aggravanti per chi incita alla violenza o commette reati per motivi così abietti, che ci sono materie (poche) rispetto alle quali la libera espressione di convincimenti e opinioni sulle differenze di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere non può mai essere considerata comportamento discriminatorio o comunque idonea a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori? Sarà poi la dinamica del libero convincimento delle coscienze a definire il profilo della nostra società e delle sue leggi.
franco chiarenza dice
Sono sostanzialmente d’accordo con Semplici. Il ddl Zan rischia pericolosamente di configurare un reato d’opinione, al di là delle condivisibili finalità dei proponenti. La strada dell’inferno come è noto è lastricata di buone intenzioni. L’art.3 inserito per rassicurare i garantisti è il più pericoloso perchè sancisce una discrezionalità della magistratura nell’applicazione di un caposaldo costituzionale come l’art.21. Ho forti dubbi sulla costituzionalità di questa inutile legge (bastava rafforzare la legge Mancino già operante).